I veri pici, genuini e di razza, si mangiano soltanto in piazza”.

 

Questa la frase che ormai da mezzo secolo accoglie chiunque voglia assaggiare i veri pici cellesi durante la famosa sagra di Celle sul Rigo.

Solo acqua, farina: ecco i pici, piatto povero per antonomasia. Rappresentavano la pasta di tutti i giorni, diversa dalla sfoglia con l’uovo destinata ai giorni di festa. Oggi viene aggiunta una piccola quantità di uovo per avere una tenuta migliore. Eppure il sapore li ha resi unici. Tutto merito della manualità che si tramanda di generazione in generazione, che provvede a una giusta compattezza, a una porosità che consente di integrarsi con il condimento.

Niente che vedere con i normali spaghetti o, peggio, i pici fatti a macchina che si trovano in qualche ristorante, non di questa zona. Qui i pici sono un prodotto rigorosamente manuale, come elemento indispensabile per salvaguardarne gusto e caratteristiche.  

 

Se gli spaghetti sono di origine cinese, forse i pici si legano agli Etruschi, stando almeno all’interpretazione di un affresco in una tomba.

Una volta preparato l’impasto, non troppo compatto, né troppo tenero, si ritagliano delle striscioline di pasta e si comincia ad “appiciare”, ovvero il processo che consente di stirarli, in una spianatoia di legno ruvido, per non farli attaccare.

Poi vengono passati nella farina di granoturco. Il condimento tradizionale dei “pici” di Celle è il “sugo all’aglione”, aglio locale che si esalta con il pomodoro. Si tratta di un sugo piccante, semplice e gustoso, a base di olio d’oliva, aglio, peperoncino, conserva e pochissimo pomodoro.

 

Sito Ufficiale San Casciano dei Bagni: https://www.sancascianoliving.it/

 

 
     
   

La pasta fresca era conosciuta già in tempi molto remoti.
La pasta fresca si consumava abitualmente, ad esempio, anche presso i greci e gli etruschi (questi ultimi pare che producessero qualcosa di molto simile ai pici): dalla parola greca laganon, che indicava una grande sfoglia di pasta tagliata a strisce, deriva il latino laganum e, infine, il nostro termine la sagna.

La continuità sia della modalità di produzione, sia della parola, è estremamente affascinante e testimonia la compenetrazione tra le diverse culture mediterranee.

 

La pasta secca, invece, acquisiva una certa importanza quando era necessario stoccare delle riserve di cibo, per prevenire gli effetti delle carestie, oppure nel caso di lunghi spostamenti. Gli antichi si accorsero ben presto che per la produzione di pasta secca era necessario usare il grano duro, che ne garantiva la lunga durata.

Non tutti i climi, tuttavia, rendevano possibile coltivare entrambe le tipologie di grano: quello duro prosperava nelle zone più calde, mentre quello tenero resisteva anche a latitudini più settentrionali. Laddove possibile, alla pasta fresca venivano aggiunte le uova, per favorirne l’amalgama.


La civiltà dei secoli passati, e in particolare quella rurale, ci ha dunque lasciato un patrimonio di pratiche e conoscenze notevolissimo, anche relativamente alla produzione gastronomica.

La Valdichiana può vantare un certo numero di alimenti tipici dai quali nascono prodotti gastronomici i quali, usando materie prime locali, costituiscono un capitale da conoscere e preservare.

Tali prodotti e ricette traggono origine dalle abitudini della civiltà contadina, che tendeva a sfruttare al meglio qualunque risorsa disponibile: in questo senso, possiamo oggi parlare di sostenibilità a tutto tondo per tali produzioni, che nascono sul territorio, con ingredienti prodotti localmente, talvolta attraverso peculiari consuetudini sociali, come nel caso dei pici, o culinarie.

 


I pici, dunque, erano il piatto povero per eccellenza, una semplice mistura di farina e acqua. La farina usata era quella di grano duro, distinta dalla più pregiata farina di frumento destinata alla preparazione di pane bianco. Insomma, quando parliamo di pici ci riferiamo a un alimento prodotto e destinato alle classi bracciantili e contadine più povere.
Tanto i pici erano un piatto povero, che nei secoli scorsi pare non figurassero neppure nei pranzi delle festività principali (Natale, Pasqua, l’Assunta, ecc.), nei quali si privilegiavano come primo piatto le minestre ben condite, oppure i cappelletti o le tagliatelle (dunque una pasta all’uovo, più ricca e nutriente). Tutt’al più i pici potevano far parte del pasto della domenica, che anche tra i più poveri abitanti delle campagne era comunque il pasto più importante della settimana. Ma più probabilmente appartenevano a una quotidianità povera.

 

In passato i pici venivano conditi, non da gustosi sughi di carne ma, semplicemente, con olio d’oliva, oppure con un battuto di sale e cipolla o, ancora, con le briciole, tradizione questa che si è trasmessa anche a noi e che forse meglio di ogni altra manifesta l’origine poverissima di questo piatto.

Talvolta, ma solo in occasioni particolari, con un sugo di uova di luccio (pescato nei laghi di Chiusi e Montepulciano), una ricetta oggi dimenticata. Un’altra differenza rispetto ai tempi odierni era che i pici potevano essere consumati anche sotto forma di minestra, un po’ come dei tagliolini: ed è da presumere che in tal caso fossero ben più corti, e forse più sottili, di quelli che oggi conosciamo.

 

La “minestra di pasta” - fosse di pici, maccheroni o altro – è attestata nel corso dell’Ottocento in particolare nei mesi invernali, soprattutto nei giorni - non troppo frequenti - in cui i contadini si recavano a lavorare all’aperto (è noto che in inverno i lavori svolti erano prevalentemente quelli “casalinghi” o comunque al chiuso: piccolo artigianato domestico, riparazioni e così via), oppure viceversa in piena estate, durante le più intense fasi di lavoro nei campi (mietitura e trebbiatura).In somma era un alimento tra i più sostanziosi, destinato a sostentare i lavoratori del contado nei periodi più pesanti.

 

Nella civiltà contadina toscana di una volta, infatti, ciò che noi consideriamo un «primo piatto», ovvero la pastasciutta o la pasta fresca, era più facilmente una minestra o minestrone, che nei pasti dei giorni feriali costituiva di norma il piatto principale. Per tanto, non è sorprendente che anche i pici potessero essere consumati così.

 

Il fatto che la tradizione culinaria regionale privilegi zuppe e minestre esalta peraltro la peculiarità della presenza plurisecolare del picio in Valdichiana: un’usanza che era ed è rimasta, tutto sommato, all’interno di un preciso contesto territoriale e sociale.

Come tutte le tradizioni, tuttavia, essa non è immutabile, e come oggi i pici vengono consumati con condimenti che solo qualche decennio fa sarebbero apparsi quantomeno esotici (pensiamo ai pici cacio e pepe o alla gricia, ricette che appartengono a un’altra tradizione culinaria regionale, per quanto limitrofa), così non deve sorprendere che siano esistiti in passato i “pici in brodo” (e chissà che non sia una tradizione da riscoprire...).

 

I “prodotti tipici” come i pici (insieme a un altro celebre piatto della cucina povera toscana, la ribollita), si sono trasformati in specialità gastronomiche ricercate dai visitatori e percepite come identificative di un’area. Il pasto povero tra i più poveri si è trasformato addirittura in un piatto gourmet, con pretese di cucina sofisticata: un curioso paradosso per una tradizione nata in un contesto di privazioni materiali, miseria e fame.

 

Sarebbe necessario (visto la quantità di copie, troppe volte brutte) vigilare, come avvenuto nel comune di S. Casciano dei Bagni, a Celle sul Rigo, con il marchio collettivo "Pici di Celle", affinché le caratteristiche peculiari dei vari prodotti, così come le modalità tipiche di produzione e talvolta di fruizione, non vengano disperse o “sacrificate” per favorirne la commerciabilità. 

 

Il marchio “Pici di Celle” è sinonimo di tradizione, qualità e autenticità, e rappresenta un valore aggiunto per i consumatori che cercano prodotti genuini, tradizionali e rappresentativi della tradizione e della cultura della regione in cui vengono prodotti.

 

I pici e la tradizione, insomma, devono rimanere legati a un preciso contesto sociale, culturale e territoriale