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			Il pellegrino, è stato giustamente 
			detto, "vive lo spazio per trascenderlo" in quanto ogni 
			pellegrinaggio è sempre e comunque una marcia verso l'"altrove", 
			durante la quale vengono vinte le difficoltà del viaggio e si attua 
			il dominio sullo spazio in forza di una pulsione profonda che è 
			anche una lotta contro se stessi e che porta in definitiva a una 
			crescita di coscienza.Ma altre finalità ed esigenze, che potremmo genericamente definire 
			"mondane", sempre si sono intrecciate alle motivazioni squisitamente 
			religiose.
 Sono poi da aggiungere i problemi posti dal ménage quotidiano, che 
			implicavano la necessità per il viandante di poter disporre di punti 
			di assistenza materiale (spedali, osterie, alberghi), accanto ai 
			luoghi che servivano al pellegrino da supporto alla propria fede 
			attraverso messaggi, segni e simboli religiosi che in essi si 
			trovavano (reliquie, corpi santi, simulacri miracolosi ecc).
 
			La "memoria" dell'arcivescovo di Canterbury, Sigeric, altro non è 
			che un lungo elenco di località (settantanove per la precisione) che 
			chiaramente intendeva indicare ai pellegrini "romei" i luoghi nei 
			quali conveniva fermarsi onde profittare dei servizi offerti dalle 
			strutture ricettive e assistenziali esistenti.
 E potremmo altresì leggerne un invito ai pellegrini di procedere più 
			lentamente, di aumentare la frequenza delle soste, con il chiaro 
			scopo di far loro gustare quello che di buono tali zone offrivano.
 In Valdelsa ad esempio sono ricordati ben otto punti di sosta e, la 
			maggiore frequenza delle tappe, non era certamente imposta dalle 
			difficoltà del percorso, praticamente inesistenti rispetto a quanto 
			il pellegrino aveva già affrontato o doveva affrontare. Essa si 
			presentava invece come una sorta di "terra promessa", per la 
			feracità del suo suolo, per la ricchezza e la varietà della sua 
			agricoltura, per le numerose piccole città e gli ancor più numerosi 
			villaggi e castelli che ne punteggiavano il territorio. È questa, 
			forse, la ragione per la quale nel tratto valdelsano della via 
			Francigena la "memoria" dell'arcivescovo Sigeric indica così tanti 
			luoghi di sosta.
 
			Il testo dell'abate Nikulas, ad esempio, è ricco di dati sulle 
			chiese visitate, sui corpi santi e sulle reliquie miracolose 
			trovate. Siamo, è vero, in una società sacralizzata, e il fattore 
			religioso è di gran lunga preminente,
 ma è evidente non si poteva non interessarsi di altri aspetti della 
			realtà. Tanto è vero che, giunto a Siena, l'abate afferma anche, e 
			in modo esplicito, tutto il suo apprezzamento per le locali 
			bellezze: "Siena, una bella città con sede vescovile presso la 
			chiesa di Santa Maria; qui ci sono le donne più avvenenti.
 Inoltre il nostro abate, che scriveva evidentemente per i suoi 
			connazionali che dopo di lui avrebbero intrapreso il pellegrinaggio 
			a Roma e a Gerusalemme, da preziose indicazioni riguardo 
			all'assistenza "corporale".
 Certo è che i principali itinerari, dal Camino di Santiago de 
			Compostela alla via Francigena, per i quali scorreva il grande 
			flusso della peregrinazione europea, nei secoli XII e XIII dovevano 
			presentarsi punteggiati di strutture ricettive a pagamento 
			(alberghi, osterie) nate per sopperire alle necessità dei pellegrini 
			che non si contentavano dei servigi prestati dagli spedali e dai 
			vari enti assistenziali che, riguardo al cibo, non dovevano essere 
			gran cosa. Infatti, quando (come avveniva il più delle volte) non 
			ci si limitava che a fornire il solo giaciglio, l'alimentazione 
			offerta consisteva, come riportano i documenti dell'epoca, in "panis 
			et aqua et coquina", oppure in "panis, tres calici vini et 
			pulmentaria''. È da tener presente che con i termini "coquina" e "pulmentaria" 
			si intendeva il companatico, per lo più rappresentato da vegetali.
 
			Ciò spiega perché, quando il pellegrinaggio divenne un fenomeno che 
			coinvolse strati sempre più ampli della popolazione, crebbe il 
			numero degli alberghi "professionisti", e nacquero anche le 
			lamentele nei confronti degli osti e degli albergatori. Non dovevano 
			essere pochi, infatti, coloro che si approfittavano dello stato di 
			bisogno dei viandanti.
 Il sermone " Veneranda dies", fornisce un'ampia casistica di quanto 
			poteva accadere di spiacevole durante il cammino.
 Di seguito alcuni passi, tradotti dal latino, del testo originale:
			"Alcuni (albergatori) all'ingresso delle città vanno incontro ai 
			pellegrini baciandoli come se fossero loro parenti venuti da lontani 
			paesi [...] guidandoli alle loro case, promettono ogni bene 
			[...]fanno loro assaggiare dell'ottimo vino, e poi danno loro quello 
			peggiore. Altri propinano una bevanda inebriante invece che vino, 
			altri vendono vino adulterato per buono. Altri fanno loro mangiare 
			carne o pesce cucinati da due o tre giorni, e così i pellegrini si 
			ammalano. Alcuni mostrano misure di grande capienza e poi vendono 
			misurando con quelle piccole [...] Certi promettono un comodo letto, 
			e ne danno poi uno cattivo [...]. Il cattivo oste non fornisce un 
			buon letto ai pellegrini suoi ospiti, se non gli pagano anche la 
			cena o una moneta d'argento. Se la moneta del pellegrino vale il 
			doppio della valuta corrente, il cattivo albergatore l'accetta solo 
			per il valore di una. Se poi non vale che una moneta, non l'accetta 
			se non per mancia. "
 
			Il veneziano Bartolomeo Fontana, nella sua relazione del viaggio a 
			Santiago de Compostela (1538) segnala, lungo l'itinerario, i luoghi 
			dove si può trovare una conveniente ospitalità. E accenna anche alla 
			possibilità che i pellegrini talora hanno di procurarsi il cibo da 
			ciò che è offerto dalla natura dei luoghi: fiumi dove si possono 
			pescare carpe; boschi ove è possibile raccogliere "gran quantità di 
			fonghi”; campagne coltivate ad alberi da frutta, dove si può contare 
			sulla generosità dei contadini per averne in offerta.
 
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			Oggetti da 
			cucina   
			Oggi abbiamo molti più oggetti da 
			cucina che nel medioevo, ma non abbiamo più bisogno di una parte di 
			quelli che loro avevano. Macinare. Alcuni cereali minori come il miglio, l'orzo, il farro, conveniva 
			macinarseli in proprio e, se non si era la moglie del mugnaio, ci 
			voleva in casa un oggetto in pietra composto di due elementi: un 
			sopra da girare e un sotto che accogliesse il cereale macinato. Nel 
			medioevo erano diffuse, più di oggi, la coltivazione e il consumo di 
			cereali minori (farro, miglio, orzo, panico, spelta ecc.) il cui uso 
			spesso prescindeva dalla macinazione (che aveva un costo e che 
			rappresentava pertanto un balzello rilevante, specialmente per i 
			ceti meno abbienti).
 
			Il frumento era il cereale 
			predominante nelle città, specialmente quelle che si emancipano 
			relativamente presto dal primato dell'agricoltura e che quindi 
			diventano progressivamente capaci di orientare la produzione 
			agricola stessa, attraverso il mercato o attraverso la mezzadria, 
			verso le tipologie di prodotto predilette dagli stessi cittadini.
			Un bel tavolo di marmo levigato era un importante strumento di 
			lavoro nelle cucine medievali. Il legno si taglia con l'uso, si 
			imbeve, mal si pulisce, si impregna di odori. La pietra è più 
			pratica e basta un panno umido con un po' di aceto per toglierle 
			qualsiasi ricordo delle preparazioni precedenti.
 
			 Le stoviglie.
 Anche la cena più povera non può fare a meno di stoviglie e di acqua 
			pulita, anche se raramente corrente. Probabilmente uno o più 
			cucchiai di legno o di metallo e una o più tazze, di legno anch'esse 
			o di coccio, c'erano in ogni casa e i pellegrini se ne portavano una 
			sempre dietro per rendersi indipendenti almeno nel consumo. Anche se 
			in alcune zone francigene resta l'eco lontana della tradizione 
			medievale di usare una mezza forma di pane come recipiente per 
			depositare davanti a sé il cibo personale preso dal contenitore 
			comune. Il coltello, poi, strumento di difesa, di lavoro, di 
			pulitura del cibo catturato o trovato, di infilzamento del boccone 
			ben prima che nascesse la forchetta, doveva essere sempre a portata 
			di mano, specialmente nelle campagne.
 
			In ogni caso, gli oggetti da cucina erano pochi, essenziali. Non 
			poteva mancare in una famiglia, che non fosse proprio povera, una 
			grossa pentola di rame, il paiolo. I poveri si dovevano accontentare 
			di un pentolone di coccio che complicava la vita perché non poteva 
			essere messo direttamente sul fuoco vivo, pena il crettarsi, e 
			quindi richiedeva un luogo separato dal focolare in cui depositare 
			brace e cenere per una diffusione più dolce del calore. Oggi chi 
			passa dalla povertà alla miseria dignitosa si compra un frigorifero; 
			nel medioevo invece la spesa che segnava il cambiamento di status 
			fosse proprio il paiolo. Il suo destino era di passare una lunga e 
			laboriosa vita appeso a una trave mobile al fianco del focolare. Al 
			mattino presto serviva per fare il formaggio. Il rito del formaggio, 
			se ci si pensa bene, consente delle ritualità accessorie: il latte 
			tiepido per la colazione dei familiari, i ritagli della cagliata che 
			sfuggono alla pigiatura nella forma come dono ai più piccoli il 
			siero per il successivo rito della ricotta e il siero esausto per 
			quello del pasto del maiale. Finito il rito del formaggio, iniziava 
			il rito del brodo ossia il pasto tipico quotidiano di una famiglia 
			non ricca dell'alto medioevo.
   
			Uno spiedo, una griglia e degli alari 
			per trattare la carne sul fuoco del camino, un mattarello per 
			spianare la pasta per torte, pasticci e qualche teglia per infornare 
			dovevano completare l'apparato domestico della cucina.Il forno era quasi sempre dedicato al pane, che si cucinava una 
			volta alla settimana, e solo per le feste alle torte e alle carni, 
			perché il pane aveva una sua dignità, che non doveva contaminarsi 
			coi grassi di cottura, gli schizzi, gli odori intensi dell'aglio e 
			delle droghe.
 
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			Materie prime e 
			arte della conservazione   
			"Non esistono più le stagioni" 
			dicevano, e dicono, gli anziani. Non esistono più le stagioni perché 
			oggi abbiamo tutto di tutto e in qualsiasi stagione. Il 
			supermercato, paese di Cuccagna che ogni tanto ci spaventa con 
			mucche pazze e diossina nelle carni, è la morte della stagionalità. 
			Nessun ragazzo o ragazza di oggi può pensare che d'inverno i fagioli 
			dovrebbero essere solo secchi, che la verdura invernale dovrebbe 
			essere per lo più sotto forma di crauti, che la frutta nella 
			stagione fredda, a parte arance, mele e limoni, dovrebbe essere 
			secca o sotto forma di marmellate. Nel momento in cui ci si priva 
			dell'onnipotenzialità del supermercato, si ricrea automaticamente la 
			stagionalità delle potenzialità gastronomiche. Ci si rende anche 
			conto che certi cibi, certe ricette potevano nascere soltanto 
			d'inverno, come altre solo d'estate.    
			I progressi nell'arte culinaria si 
			sviluppano nell'invenzione, ma anche nella conservazione. I 
			progressi del primo tipo appartengono spesso alla cultura della 
			fame, all'arte di arrangiarsi, alla trasformazione di materie prime 
			di ripiego in strumenti di condivisa quotidia-nità; la seconda 
			tipologia appartiene alla cultura dell'abbondanza, al- 
			l'accumulazione del capitale alimentare. I poveri possono conservare 
			verdure per l'inverno e la carne del maiale o delle oche per i 
			momenti di bisogno, ma non si va molto oltre la fermentazione dei 
			cavoli e l'affumicatura e la salatura di carni e formaggi. 
			 La salatura dei prodotti.
 Non a caso si è detto che il sale era il frigorifero del medioevo. 
			Ciò che non può essere consumato deve essere salato. Per il sale si 
			diventava banditi, ossia anche la persona più onesta, avendone 
			l'occasione, ricorreva al contrabbando, andando in proprio per 
			strade impervie fino alle fonti del sale, o facendosi portare di 
			nascosto sacchi di sale che non erano passati dalla dogana del 
			signore. Evitare la gabella del sale e quella della macinatura dei 
			cereali era la premessa indispensabile per una vita non ricca ma 
			dignitosa. Niente è più medievale di tale ostinata ricerca di 
			salvarsi da una gabella esosa ed efficiente: a costo di riempire i 
			campanacci delle pecore transumanti di un sacchetto della preziosa 
			sostanza.
   
			Ma ci sono anche altri criteri di 
			conservazione. Il più curioso è la pressatura. La farina di castagne 
			veniva conservata in piccole casse di legno dove la farina veniva 
			"battuta" per far uscire l'aria dal contenitore fino a diventare una 
			sorta di solido rettangolare molto compatto. Evitava la formazione 
			di muffe e l'invasione delle pericolose farfalline della farina. Per 
			riutilizzarla, la si grattugiava con una spatola dentata, solo quel 
			tanto che serviva al momento. Le uova venivano conservate nella 
			calce spenta (calce spenta nell'acqua fino a darle una consistenza 
			di pasta dentifricia). In zone di sorgenti sulfuree per integrare la 
			salatura, il cui costo era sempre rilevante, e quindi risparmiare 
			sul sale fatto assorbire a salumi e formaggi, si usava una poltiglia 
			di tale acqua sulfurea mescolata con argilla per ricoprire l'esterno 
			delle forme di cacio e dei prosciutti. 
			 
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			Conservanti   
			Già nell'antichità si sapeva 
			intuitivamente che, oltre al miele, anche il sale, il fumo, 
			l'essiccazione bloccano i processi degenerativi del cibo.Certe acquisizioni scientifiche di pochi anni fa ci dicono che 
			intuitivamente i nostri antenati praticavano usi che solo oggi 
			sappiamo essere eccezionalmente appropriati per prolungare la 
			conserva-zione dei cibi.
 Solo oggi sappiamo che l'aglio è un potentissimo antibatterico, 
			quanto e forse di più del pepe. Riflettiamo però sul fatto che 
			l'aglio era un prodotto locale, facilmente reperibile in ogni casa, 
			mentre il pepe era un costoso prodotto d'importazione. Ispiriamoci, 
			a titolo di esempio, alla concia per la lavorazione dell'impasto per 
			la finocchiona (sale, pepe, vino, aglio e semi di finocchio). 
			Quattro conservanti naturali e un aromatizzante a basso costo.
 
			La distillazione dell'alcol probabilmente nasce nel mondo arabo con 
			gli alambicchi, nome tipicamente arabo, come forse la stessa parola 
			al-cohol. La bollitura dei mosti per rinforzare il vino o la sapa 
			per cucinare non sono neanche lontane parenti della distillazione. 
			Quindi non si hanno tracce di distillazione in Europa fin dopo le 
			Crociate, segno che quello fu il momento di scambio non solo del 
			prodotto, ma anche dei mezzi di produzione e delle tecniche.
 
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			Antipasti e verdure   
			Difficilmente una massaia dell’epoca 
			non aveva qualcosa di caldo, pronto per essere distribuito. Di 
			conseguenza, l'idea di un "qualche cosa" che viene posto sulla mensa 
			in attesa che il piatto di portata sia pronto, non torna nella 
			logica medievale. Però bisogna riuscire a introdurre quelli che noi 
			moderni chiamiamo antipasti, specialmente se, come di recente 
			accade, sono a base di cacciagione.    
			Cacciare nel medioevo era riservato ai 
			ricchi e ai nobili, anzi molto più ai nobili che ai ricchi, anche se 
			spesso i due concetti tendevano a coincidere. Chi possedeva la 
			terra, si riservava una parte non indifferente del bosco, con 
			possesso esclusivo e controllato da personale appositamente addetto, 
			per coltivare quell'esercizio, la caccia, che era la conseguenza e 
			forse anche un obbligo dello status nobiliare; e che consentiva 
			anche una dieta connessa direttamente con questo status.  
			La gotta nel medioevo, e anche dopo, 
			era quindi una malattia "professionale", nel senso che era tipica 
			dei nobili. Però la cacciagione, per quanto diplomi, leggi, 
			disposizioni private e punizioni esemplari ne vietassero l'accesso 
			ai non nobili, non era certo esclusiva del ceto più favorito. 
			 
			Con la fame endemica che serpeggiava 
			ovunque, chi si trovava a vivere ai margini di un bosco regio, non 
			si peritava certo a tendere trappole e a scoccare una freccia 
			all'imbrunire verso un cervo, un orso o anche una fagiana intenta a 
			covare o a nascondersi nelle sterpaglie. Le punizioni per i 
			cacciatori di frodo erano tremendamente esemplari e assurdamente 
			gravi.  
			Anche la carne poteva rappresentare un 
			corpo del reato o almeno un pesante indizio in tal senso, se non 
			veniva rapidamente trattata, ossia trasformata secondo i 
			tradizionali criteri di conservazione di lunga durata che erano 
			l'affumicatura, la salatura, la confezione in insaccati e salumi.L'impressione è che è più facile concepire che nel medioevo si 
			avesse a portata di mano un salume di cervo di quanto non sia 
			attualmente.
   
			Ci avete fatto caso che i cibi 
			contemporanei che consentono, nonostante le variazioni del gusto, un 
			accostamento radicale tra dolce e salato sono quasi tutti antipasti? 
			Prosciutto e melone, fichi e salame, necci freddi e frittata e così 
			via. Non è difficile da scoprire, sotto questi accostamenti, la 
			signora fame.  
			Ma non la fame congenita, bensì una 
			fame temporanea, reversibile, del marito che torna dal campo con un 
			calo di zuccheri e sbraita per avere qualcosa da mettere sotto i 
			denti in attesa che cuociano i maccheroni, del pellegrino che arriva 
			distrutto all'osteria e sente più il borbottio dello stomaco che le 
			galle ai piedi, del signore che arriva alla fattoria con quel certo 
			languorino e non è il caso di farlo attendere.  
			L'accostamento dolce-salato è una 
			risorsa di fortuna delle massaie intelligenti. 
			 
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			Il brodo   
			Oggi in Italia un pasto senza pasta è 
			un’insolita eccezione. Nel medioevo invece al centro del rito 
			gastronomico c’erano le zuppe.  
			Pappe, creme, zuppe e polente 
			(ovviamente prive di mais) dovevano essere abituali nel medioevo per 
			più ragioni: perché i denti cadevano rapidamente e non venivano 
			certo sostituiti da protesi; perché infanti, malati e anziani ne 
			avevano ovvio bisogno, per la loro digeribilità; perché poi sono 
			cibi di pressoché immediata disponibilità in presenza di turni di 
			refezione (lavoratori dei campi, soldati, pellegrini) e perché 
			rendono utilizzabili le granaglie minori e le verdure, che sono le 
			risorse di una dignitosa povertà, affamata ma non sprovveduta.
			   
			Le zuppe in apparenza si somigliano 
			tutte. Hanno alla base un soffritto di odori, magari accompagnato da 
			una bella fetta di lardo tritata e da olio d'oliva sul fondo del 
			pentolone che è stato usato al mattino per fare il formaggio. Poi si 
			gettano dentro verdure dell'orto sminuzzate e granaglie, a seconda 
			della ricchezza della casa, e legumi, anche questi a seconda delle 
			disponibilità economiche familiari, poi acqua abbondante. Per 
			salare, oltre ai grani che ricoprono il lardo, si saranno usate tre 
			o quattro acciughe salate sminuzzate: il corrispettivo medievale dei 
			dadi da brodo. Si copre il pentolone con un coperchio robusto e si 
			va a fare le faccende, ricordando alla figlia maggiore di mescolare 
			ogni tanto, badando pure che i figli più piccoli non si brucino. 
			Questo, è quello che Fabrizio Vanni ha chiamato anni fa, il "brodo 
			primordiale" tanto per ribadire che sta all'origine dell'arte di 
			sfamarsi nel medioevo. Se granaglie e legumi secchi sono stati 
			tritati in precedenza, la zuppa assomiglierà al pulmentum dei romani 
			antichi, ossia una sorta di polenta ante luterani, anch'essa 
			mutevole da zona a zona e da famiglie ricche a famiglie povere. Uno 
			studioso ha fatto notare come i derivati dei cereali abbiano da 
			sempre nomi che iniziano con la lettera "P": puls, pulmentum, pane, 
			pasta, pizza, polenta... Solo quest'ultima nel medioevo non c'era, 
			non essendoci il granoturco, ma avrà avuto ovunque altrettanto 
			apprezzati sostituti, grazie al farro, al grano saraceno, ai cereali 
			minori e ai legumi.
   
			Il "brodo primordiale" ha un solo 
			pregio: dopo un'oretta di cottura diventa disponibile ma più cuoce e 
			migliore diventa, nel senso che si rassoda, ossia diventa una specie 
			di polenta, può essere tenuto in caldo, può essere servito 
			immediatamente, via via che le orde fameliche di familiari, 
			pellegrini e poveracci bussano a chiedere un po' di ristoro. Se le 
			bocche sono quelle preventivate, bene. Se malauguratamente sono di 
			più, basta allungare con acqua e far riscaldare il tutto per qualche 
			minuto. I primi si saziano, gli ultimi sperano di riuscirci, ma, 
			quanto meno, si riempiono lo stomaco di qualcosa di caldo.Dal "brodo primordiale", per semplificazione e distinzione 
			successiva, nascono una gran quantità delle zuppe che adesso noi 
			oggi conosciamo e apprezziamo: zuppa di ceci e porcini, zuppa di 
			fiori di zucca e mentuccia…ecc.
 
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			Pasta e gnocchi senza patate   
			La pasta domestica era quasi sempre 
			nella forma di maccheroni improvvisati, tagliati alla meglio col 
			coltello, gettati nell'acqua bollente uno dopo l'altro e conditi in 
			bianco, con burro e cacio grattugiato.  
			Nelle feste, e quando la comare poteva 
			permettersi di perdere più tempo dietro alla cucina, nascevano 
			tortelli, tortellini, ravioli, agnolotti, cappelletti, cappellacci, 
			ossia pasta ripiena di carne o verdure e ricotta, con molti aromi 
			nella mischia. 
			  
			Il condimento era sempre sobrio. 
			Burro, formaggio da grattare, funghi, frattaglie di pollame, e 
			fegatini in particolare, ammesso e non concesso che ci fosse stata 
			occasione o ragion sufficiente, in precedenza, per tirargli il 
			collo.  
			Inoltre, se consideriamo gli 
			gnocchetti di pasta all'uovo come sostitutivi degli gnocchi di 
			patate e delle tagliatelle, possiamo rileggere tutte le ricette 
			moderne, prive ovviamente di pomodoro, come probabili discendenti di 
			qualcosa di origine medievale, sempre che teniamo conto che un tale 
			dispendio di tempo e risorse nel medioevo doveva essere giustificato 
			da un concetto chiave: la festa. 
			Solo quando è festa si lavora la pasta 
			col mattarello, si inventano sughi, si uccide del pollame e se ne 
			usa le interiora in una sorta di cibrèo polifunzionale. 
			A maggior ragione, se parliamo di torte salate, pasticci, e quanto 
			la fantasia fa riempire una sfoglia di pasta all'interno di una 
			teglia per poi ricoprirla con un'altra sfoglia.
 Per le gelatine poi, bisognava aver ucciso il maiale, oppure che una 
			vacca morisse di parto, per utilizzare al meglio le cartilagini 
			delle zampe, oppure avere a disposizione abbondanza di pesci grassi 
			come le anguille.
 
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			Le carni   
			La caccia era incredibilmente 
			importante nel medioevo, il suo esercizio era un diritto sovrano e, 
			a discesa, nobiliare.  
			I non nobili potevano cacciare solo in 
			funzioni ausiliarie dei rispettivi padroni oppure di frodo, con 
			rischi assai gravi. La caccia ha riti precisi a partire dall'uso 
			degli animali per stanare o catturare le prede. La falconeria è 
			l'arte somma tra tutte quelle attinenti la cattura degli animali. 
			Anche il dopo caccia ha una sua speciale ritualità. Nel poemetto di 
			ignoto autore inglese della fine del XIV secolo intitolato Sir 
			Gawayne and thè Grene Knight {Galvano e il cavaliere verde) l'autore 
			si dilunga per una cinquantina di versi nella descrizione della 
			scalcatura a crudo di cervi e daini catturati immediatamente prima. 
			Descrive la separazione delle carni dalle interiora, dalla pelle, e 
			la legatura dei pezzi pregiati per meglio trasportarli. Poi ci sono 
			altre ritualità magiche (si getta "il tributo del corvo" in un 
			boschetto, si mettono sulla pelle di una delle bestie uccise i 
			polmoni e i fegati mischiati a pane imbevuto nel sangue per nutrire 
			i bracchi che hanno collaborato alla caccia). 
			La carne medievale andrebbe cucinata con l'aceto di vino o meglio 
			ancora col vino. Per una serie di ragioni: perché l'aceto toglie il 
			puzzo di rancido, anche in mancanza di pepe o altri aromi esotici, 
			perché l'aceto abbonda, in quanto il vino medievale, prodotto al 
			massimo delle potenzialità della pianta, ha basse gradazioni e si 
			inacidisce entro l'anno. Perché l'aceto ha proprietà antibatteriche: 
			anche se nel me-dioevo questo si ignora.
 Di conseguenza, per le carni medievali, che sono il massimo dello 
			status, del gusto e della ricchezza profusa nei cibi, la marinatura 
			è un obbligo. La marinatura non è una tecnica di conservazione. È 
			una tecnica di adattamento gastronomico. La marinatura con vino, 
			carota, odori, ginepro e spezie è uno degli elementi che consentono 
			di sospettare e riconoscere la natura medievale di un cibo. L'afrore 
			della selvaggina, il puzzo della carne mal conservata, la durezza 
			dei tagli meno nobili tendono a esser annullati, o almeno si spera, 
			con la marinatura.
 
			Più la carne fa status (dalla cacciagione alla carne rossa di 
			allevamento) più ha bisogno della marinatura. Elementi della 
			marinatura sono il vino (o l'aceto, o l'agresto) e gli aromi. Questi 
			ultimi sono divisi in due gruppi, ovviamente in base allo status e 
			alla ricchezza della famiglia: la prima classe è quella degli aromi 
			esotici, e qui ci si può sbizzarrire (adesso) con una disponibilità 
			che nel medioevo era condizionata dalle stagioni, dall'andamento dei 
			commerci internazionali e dal prezzo di mercato delle materie prime, 
			conseguenza degli altri due fattori.
 
			Pepe, chiodi di garofano, noce moscata, talvolta potranno anche 
			cozzare fra di loro, ma, in quanto simbolo palese di ricchezza, 
			saranno stati apprezzati comunque dai commensali. La seconda classe 
			era quella degli aromi domestici, sempre o quasi sempre disponibili, 
			e quindi affidati alla sensibilità e al buon senso della massaia: 
			alloro, ginepro, carota, sedano, prezzemolo, aneto, finocchio, 
			aglio, scalogno, cipolla, erba cipollina, rafano ecc.
 
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			Il vino   
			Il vino nel medioevo è un cibo, ossia 
			un nutriente a tutti gli effetti. Era il carburante dei contadini e 
			degli artigiani: "Luglio dal gran caldo, bevi bene e batti saldo".Faremmo bene a considerarlo tale anche noi, tendenti all'obeso, il 
			vino, perché con la scusa che è una bevanda, fingiamo di ignorarne 
			l'enorme apporto calorico. A maggior ragione se pensiamo che 
			l'attuale gradazione dei vini imbottigliati è assai più elevata di 
			quella dei vini medievali in genere.
   
			Nel medioevo infatti, ma anche dopo, 
			non è che ci si tenesse molto a fare un vino di qualità: si 
			preferiva la quantità, perché al padrone andava bene lo stesso, agli 
			operai a giornata anche. Non c'era bisogno di annacquarlo. Se poi 
			"svaniva" o si rovinava col tempo, gli stomachi erano forti 
			abbastanza per continuare a berlo. Gli unici che si preoc-cupavano 
			della qualità del vino erano i sacerdoti, ma solo per evitare di 
			fare boccacce durante il rito della messa. Eppure la saggezza 
			contadina mette in bocca alla vite l'adagio: "Fammi povera e io ti 
			farò ricco". Povera di tralci e di grappoli, la vite produce al 
			meglio il suo prodotto che diventa oggi una ricchezza, imitata ma 
			inimitabile. Nessun contadino ha, mai e poi mai, dato retta a questa 
			implicita saggezza: anzi, è facile sentire gli (oggi) anziani che 
			hanno rivoluzionato la viticoltura dagli anni Sessanta del secolo 
			scorso raccontare che venivano trattati come matti, dai loro 
			anziani, ora fra i più, se tagliavano via i grappoli in eccedenza 
			dalle piante. 
			Anche nel medioevo però il vino è uno dei prodotti di consumo che 
			tende ad avere una provenienza. Già nell'antichità si distinguevano 
			i migliori vini in tal modo. Lo si è continuato a fare nel tardo 
			antico.
 Quando poi il commercio diventa una pratica altamente 
			razionalizzata, le tipologie dei vini e le loro provenienze 
			diventano elementi di fissazione dei costi e quindi dei prezzi di 
			vendita.
 
 
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					Frutta fresca e secca   
					La frutta fresca, come oggi si 
					dice "di stagione", sembra essere stata una risorsa 
					indispensabile per colmare i vuoti di una fame endemica. 
					Almeno così ci porta a pensare il buonsenso. Anche se in 
					parecchi statuti tardo medievali si impone di piantare 
					almeno alcuni alberi da frutto nel proprio terreno e di 
					coltivare un orto: segno che alcuni proprietari, quasi 
					certamente i più ricchi, commercianti e finanzieri, non 
					avevano con la terra quel rapporto razionale che ci si 
					immaginerebbe.    
					Nella scala valoriale della 
					frutta, la sua seccabilità e quindi conservabilità a 
					oltranza è la chiave primaria di valutazione: noci, 
					nocciole, semi di zucca, pistacchi introdotti dagli arabi 
					nel sud d'Italia, sono frutti che si seccano quasi senza 
					problemi. Anche le sorbe e le nespole, fatte maturare nella 
					paglia, venivano mangiate molto mature, quando erano giunte 
					a uno stadio vicino alla fermentazione: il loro pregio era 
					dovuto al fatto che resistevano fino alla stagione 
					invernale. Il proverbio recita infatti: "Con il tempo e con 
					la paglia maturano le sorbe e la canaglia". Nel medioevo i 
					fichi secchi erano il premio per i bambini bravi, gradito 
					quant'altri mai, molto più di quanto oggi si apprezzino gli 
					ovetti di cioccolata. Erano l'offerta a chi giungeva lontano 
					dalle ore del pasto. Erano il completamento dello stesso per 
					quella massaia che si sentisse in colpa per la povertà 
					dell'offerta.  
					Seccare i fichi è abbastanza facile. Una pianta adulta ne 
					produce in abbondanza. Il fico ha una sua dignità 
					nell'iconografia medievale, e questo già dovrebbe essere un 
					segno di valutatone e di stima. Al controllo della seccatura 
					dei fichi possono essere addetti anche i fanciulli e quindi 
					rappresentano un surplus di produzione a poco prezzo.
 
 
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							Dopocena e veglia   
							Del modo di stare a 
							tavola si è detto e scritto parecchio nello stesso 
							medioevo, e anche dopo; ed è assai facile capire che 
							chi espone, propone o raccoglie regole in questo 
							campo tende anche a marcare differenze di status tra 
							chi segue e chi non segue tali regole; tra chi 
							accetta o non accetta l'ovvia divisione del lavoro 
							che si crea anche in questo campo, dove dovrebbe 
							regnare la massima democrazia"'.    
							Il pasto, e in 
							particolare la cena e il dopocena (la veglia), sono 
							nel medioevo alcune delle poche occasioni di 
							socializzazione. Hanno quindi una serie di ritualità 
							predeterminate. La laudatio dei cibi era la prima e 
							più importante, perché gratificava le cuoche e 
							indirettamente il capofamiglia che aveva abbondato 
							nell'attingere alle riserve domestiche (oggi, che si 
							va al ristorante, si parla, in Toscana specialmente, 
							sempre di cibo, ma di quello gustato altrove - 
							snaturando il senso originale di un processo che, in 
							origine, era giustificato e gratificante per tutti i 
							presenti).    
							In seconda istanza, la 
							veglia affrontava argomenti che stavano a cuore a 
							entrambe le componenti, quella domestica e quella 
							ospite, in particolare, data la scarsa circolazione 
							di informazioni nel mondo contadino, l'ospite era 
							tenuto a riferire le novità del vasto mondo e, se ne 
							aveva, le ragioni della sua presenza in loco. A 
							seconda dell'andamento della conversazione, la 
							componente domestica poteva riferire della 
							situazione locale, esaltando o denigrando i 
							comportamenti della comunità allargata. A parere di 
							Fabrizio vanni (autore del libro – Antichi 
							“mangiari” lungo la via Francigena” – e da cui ho 
							tratto quanto sopra e sotto), la veglia - 
							contenitore tradizionale, ma molto "aperto" nel 
							senso che lascia autonomia piena agli organizzatori 
							locali su contenuti e modalità da proporre - 
							dovrebbe diventare lo strumento principe 
							dell'intrattenimento francigeno.    
							In Toscana ci abbiamo 
							provato e intendiamo riprovarci. Forse anche nelle 
							altre regioni meriterebbe. La cosa più difficile è 
							accordare gli interessi particolari per far sì che 
							ogni veglia si succeda temporalmente e 
							geograficamente come se mimasse o accompagnasse il 
							viaggio di un pellegrino verso Roma.   |  
						
							
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									Valdarno & 
									Valdelsa   
									La zona tra 
									Altopascio e Fucecchio conserva ancora, 
									almeno in parte, aspetti selvaggi e 
									paludosi. Nel medioevo, a parte una stretta 
									fascia sopraelevata, le Cerbaie, su cui 
									passava la via Francigena, era palude: di 
									Bientina a ovest e di Fucecchio a est. Qui 
									uccelli di passo, pesci e anguille, ma anche 
									chiocciole e ranocchi dovevano essere cibo 
									quotidiano per la gran parte della 
									popolazione. Delle chiocciole, in montagna 
									si prediligevano le grosse e robuste, 
									amarognole per essersi nutrite di bosso. In 
									collina anche quelle con la conchiglia 
									striata, quasi mimetica. Le più pregiate 
									erano i "martinacci", chiocciole con il 
									guscio poco calcificato, che venivano fatte 
									arrosto, su apposite grate metalliche messe 
									sul fuoco. Appena il calore le faceva uscire 
									dal guscio, venivano salate. Ancora pochi 
									minuti ed erano pronte da gustare: molto 
									saporite. Oggi i poveri ricci e gli istrici 
									sono vittime delle automobili. Ma un tempo 
									che la fame imperversava, venivano uccisi, 
									gettandoli nell'acqua bollente. Una volta 
									corti, venivano tolte le spine e usati per 
									creare intingoli. 
									Il pane di Altopascio è stato associato alla 
									via Francigena e ai frati del Tau, quelli 
									del calderone unto e bisunto, descritto dal 
									Boccaccio nel Decameron. Il pane nel 
									medioevo era un ingrediente di riuso 
									innovativo. Il pane raffermo si usa per 
									farcire polpettoni, anatre e oche ripiene, 
									abbrustolito o meno serve di base per zuppe 
									(frantoiana, di fagioli, contadina, di 
									cipolle ecc), acque cotte, minestre di pane, 
									ribollita, e una infinità di altre ricette 
									tradizionali. Il pane è una spugna che si 
									impregna di sapori e odori: il principio 
									base del riuso è solo questo, oltre alla 
									necessità di non sprecare nulla di quanto 
									possa riuscire a sfamare le molte bocche 
									presenti in casa. A proposito di pane. I 
									fiorentini, per non dover pagare il sale a 
									Pisa, decisero a un certo punto, ma comunque 
									nel medioevo, di fare il pane sciapo. Sai 
									che conquista: se ne mangia di meno e ci 
									vuole più companatico. E il sale si vendica 
									perché se non è diffuso oculatamente tra gli 
									ingredienti che si mettono in bocca, ce ne 
									vuole sempre di più per dar sapore al bolo e 
									genera ipertensione.
 
									Anche il passaggio nei pressi di San Miniato 
									al Tedesco, castello imperiale, in cui 
									imperatori e marchesi cercavano di affermare 
									quell'unità statale, che si andava 
									rapidamente sgretolando di fronte al 
									particolarismo e all'iniziativa economica 
									delle città dell'Italia centro 
									settentrionale, si presta bene a una 
									riflessione sul tartufo. Oggi il tartufo 
									bianco è una improba componente del lusso 
									più sfrenato. Nel medioevo, nonostante le 
									differenze di classe e di status, che non 
									erano inferiori alle odierne, anzi, venivano 
									coltivate e promosse con maggiore 
									ostentazione e protervia, era un prodotto 
									meno esclusivo e più popolare, almeno nelle 
									zone in cui si raccoglieva. E siccome non 
									doveva essere altro che un aroma 
									supplementare, lo ritrovo naturale nella 
									farcia di selvaggina alata: fagiani, gru, 
									germani, quaglie e folaghe, ma anche tordi, 
									che non dovevano mancare nell'area di 
									produzione, specialmente nei paduli di 
									Bientina e di Fucecchio e lungo l'Arno e le 
									molte lame d'acqua ferma create dalle piene 
									del fiume.
 
									Per insaporire carni e polpette si usavano 
									spesso anche funghi, ma non quelli che 
									ancora si raccolgono e che vengono 
									analizzati nei mercati centrali alle sei di 
									mattina da esperti micologi. No, si 
									raccoglievano, al tempo giusto e ben 
									riconoscendone la specie, anche le "esche" 
									che erano funghi che nascono su alcune 
									piante e non sono com-mestibili perché molto 
									legnosi, anche se non velenosi. L'uso era 
									quello di grattugiarli nell'impasto di carne 
									perché molto aromatici. Sempre nei pressi 
									dell'area che stiamo attraversando, anche se 
									siamo in vai d'Era, c'è il comune di 
									Peccioli, dove si è riscoperta da qualche 
									tempo l'uva Colombaria, uva bianca 
									dall'acino tondo, dolcissima e profumata, da 
									consumare come frutto e non per la 
									vinificazione. Come si evince dal nome, ne 
									viene attribuita l'origine alle coltivazioni 
									dei monaci iroscoti, seguaci di san 
									Colombano che, dalla lontana Manda, primi 
									pellegrini romei, scesero in Francia a 
									Luxeuil, poi a San Gallo in Svizzera e 
									infine a Bobbio nella valle della Trebbia 
									all'inizio del VII secolo e da lì si 
									sparsero nella Liguria e nella Tuscia 
									occidentale. Non ci sono prove che 
									l'attribuzione sia vera, ma è verosimile se 
									si pensa che in zona sono state scoperte 
									tombe altomedievali di gente coi capelli 
									rossi e che dove compare il toponimo San 
									Colombano c'è sempre una viticoltura antica 
									e valida.
 
									Al pellegrino conveniva rifornirsi di cibo 
									in Valdelsa per due ragioni: che presso i 
									luoghi di maggior produzione e smercio il 
									costo del cibo era minore e che in città, a 
									Siena per esempio, la maggior domanda 
									avrebbe potuto far alzare i prezzi. In 
									compenso le gabelle favorivano il pellegrino 
									e il viandante: a Siena portando con sé fino 
									a 12 caci e 30 uova non si pagava gabella. 
									La cipolla di Certaldo non è soltanto famosa 
									per la novella del Boccaccio dedicata a 
									frate Cipolla, perché esiste una vasta 
									letteratura che ne contempla i meriti: 
									risvegliare ogni sorta di appetiti, far 
									lacrimare gli amanti onde convincere le 
									amate, poter esser portata senza problemi 
									nei campi e in viaggio.
 
									Lo zafferano era prodotto nel medioevo in 
									tutta l'area a sud dell'Arno, ma in 
									particolare nelle comunità del certaldese, 
									anche se poi i grandi mercanti di questo 
									prodotto di lusso facevano capo a San 
									Gimignano. Numerosi erano i modi di 
									adulterare un prodotto tanto costoso, 
									mescolandolo con le parti meno nobili del 
									fiore autunnale o anche aggiungendovi 
									listelle di carne equina seccata e tagliata 
									sottilmente per via del colore identico. 
									Anche la verdea, un vitigno che da il nome a 
									uno strano vinello leggero e dolce, adatto a 
									donne e fanciulli perché a bassa gradazione, 
									veniva prodotto a sud dell'Arno anche se la 
									zona che più ebbe fama sono le colline 
									immediatamente a sud di Firenze. La verdea è 
									stata vietata dalla Comunità Europea perché 
									aveva modalità anomale di produzione.
 
									E infine il marzolino di Lucardo: il 
									prodotto tipico che ha (parere del Vanni) il 
									più antico riferimento storico in assoluto. 
									Nicola, vescovo di Butrinto, arcidiocesi di 
									Giannina in Grecia (dove probabilmente non 
									era mai stato), era un domenicano francese 
									messo dal papa francese Clemente V, il primo 
									dei papi avignonesi, al seguito del viaggio 
									italiano di Arrigo VII di Lussemburgo e, per 
									quest'ultimo, svolgeva, se necessario, anche 
									importanti legazioni. Scrisse anche una 
									relazione al papa probabilmente subito dopo 
									la morte dell'imperatore che tante speranze 
									aveva scatenato in Dante e nei ghibellini 
									italiani. Nel descrivere la sosta che 
									l'esercito imperiale fece a sud di Firenze 
									dal 3 novembre 1312 al 6 gennaio dell'anno 
									successivo, il vescovo scrive: "Nei dintorni 
									c'erano molti potenti castelli. Ne bruciò 
									alcuni, altri li tenne per sé, e tra questi 
									Lucardo, dove si fanno buoni caci...".
   
									Tutto qui, ma 
									in una relazione diplomatica al papa 
									arrivare a parlare di formaggio credo sia il 
									massimo che si potrebbe pretendere per 
									valorizzare un prodotto e il luogo che lo 
									produceva. Oggi ci sono ancora dei 
									produttori locali, ma si perdono nella 
									grande massa dei pecorini di Toscana. Il 
									formaggio marzolino di Lucardo, era famoso e 
									apprezzato proprio perché a pasta soda, 
									senza buchi. La cultura popolare toscana ha 
									almeno tre modi di dire legati a questo 
									apprezzamento: "Cacio serrato, e pan 
									bucherellato" ovvero "pane alluminato 
									e cacio cieco" o ancora "pane con gli 
									occhi e cacio senza occhi; e vin che 
									cavi gli occhi".
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											Siena   
											Siena 
											è sempre stata una città ricca, dove 
											lo sfoggio trova anche nel cibo 
											notevoli soddisfazioni. Ma la nostra 
											sarebbe in buona compagnia con altre 
											città, non solo toscane.  
											A 
											farla diventare capitale delle 
											stravaganze alimentari non è tanto 
											il Libro di cocina di Anonimo 
											toscano, e forse, stando a certe 
											espressioni linguistiche, proprio 
											senese, del secolo XIV, stampato per 
											la prima volta nel 1863, bensì 
											proprio il padre Dante che, in una 
											folgorante terzina del XXIX Canto 
											dell'Inferno, ricorda il senese 
											Niccolo (della ricca famiglia dei 
											Bonsignori, secondo alcuni, o dei 
											Salimbeni, secondo altri) "che la 
											costuma ricca / del garofano primo 
											discoperse" ovvero che usò, 
											sembra per primo, i chiodi di 
											garofano forse non tanto in cucina, 
											che era prassi ormai abituale 
											all'epoca di Dante, ma sparsi sulla 
											brace dove si arrostivano le carni, 
											con quel che costava la spezia 
											esotica allora; il guaio vero è dato 
											però dall'ultimo verso della terzina
											"ne l'orto dove tal seme 
											s'appicca", perché quest'orto 
											metaforico è proprio Siena, dove si 
											coltivano e lussureggiano appunto le 
											stravaganze alimentari, e non solo.
											   
											Il 
											valore del cibo trova spazio anche 
											nello statuto comunale della città: 
											durante le festività di mezzo agosto 
											il Comune creava i suoi nuovi 
											cavalieri, che avevano il diritto di 
											recintare con uno steccato un pezzo 
											della piazza del Campo, 
											rinchiudendovisi dentro con i propri 
											accoliti per sette giorni. Era 
											quella che si chiamava "corte 
											bandita", e lo statuto vieta ai 
											cuochi di chiedere più di 40 soldi 
											al giorno per il servizio di cucina 
											destinato a dette corti. Siena, con 
											Firenze, vanta i più antichi libri 
											di cucina, ma se il fiorentino 
											descrive solo piatti da ricchi, il 
											senese non disprezza neppure la 
											cucina popolare.Oltre alle spezie, testimonianza 
											concreta e odorosa dei commerci 
											internazionali a cui anche i senesi 
											si dedicavano, la cucina medievale 
											senese ama utilizzare frutta fresca 
											(pere, in particolare) e secca 
											(mandorle bianche e prugne) per le 
											proprie creazioni gastronomiche oggi 
											difficilmente accettabili al palato 
											moderno: dal " brodo saracenico" 
											alla "gratonia".
 
											Il biancomangiare senese, sulla base 
											classica del riso e dei petti di 
											pollo lessati, prevedeva l'aggiunta 
											di molto zucchero bianco, lardo 
											fritto, latte di capra e zenzero 
											bianco.
 Anche se non avevano né mare né 
											laghi nelle vicinanze, il pesce se 
											lo facevano venire dai laghetti 
											della bassa Valdichiana o dal 
											Trasimeno. Lasche e anguille erano 
											le preferite. Frutta fresca e pesci 
											di pescaia, poi, erano oggetto di 
											scorribande notturne dei 
											giovinastri, perché pare che il cibo 
											rubato fosse più saporito. Anche 
											ricevere in dono un canestro con 
											cento pere poteva esser motivo per 
											un letterato di stilare un carme 
											laudatorio, impetrante un anno di 
											indulgenza per ogni pera ricevuta. A 
											Siena poi si usa un'erba aromatica, 
											il dragoncello, che da altre parti 
											d'Italia, escluso il nord, è 
											pressoché ignota. È stato per 
											que-sto ipotizzato il legame con la 
											Francia, dove l'estragon è 
											molto usato per aromatizzare il 
											burro e l'aceto o anche nelle salse.
 I senesi ci tengono al punto, alla 
											loro erba che scaccia le streghe, 
											che nel 2006 hanno organizzato 
											un'apposita kermesse, scatenando i 
											ristoratori della provincia.
 
											Come Lucca, Siena deve essere 
											ricordata in particolar modo per i 
											dolci. Dove, se non in una ricca 
											città di mercanti e finanzieri del 
											papa, lo sfoggio economico si 
											trasferisce in cucina, e in quella 
											parte della cucina in cui il dolce 
											prevale e si fa autonomo e, quando 
											infine si comincia a importare lo 
											zucchero in grandi quantità, di 
											questo ingrediente fa un elemento 
											scatenante, onnipresente, eccessivo? 
											Nella nostra cena medievale tentiamo 
											di fare un panforte col solo miele, 
											un ricciarello al miele d'acacia 
											(che non sporca il candore 
											paradisiaco del prodotto) e i 
											cavallucci senza zucchero o sciroppo 
											di glucosio tra gli ingredienti. 
											Almeno questi ultimi potrebbero 
											meritare un tentativo domestico. Gli 
											ingredienti sono tutti medievali: 
											farina, miele, frutta candita, noci, 
											nocciole, spezie lievito e aromi.
 
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													Val d'Arbia & Val d'Orcia   
													
													Qui, in queste che non 
													sembrano valli, perché non 
													ci si accorge dove si 
													dirigono i piccoli fiumi che 
													le traversano, dove domina 
													la coltura estensiva, se non 
													più il latifondo, dove ci si 
													aspetterebbe che, come si 
													sono conservati i manufatti 
													medievali, le mura, le 
													grange, i castelli, le 
													abbazie, così ci 
													aspetteremmo che si fosse 
													conservata anche la cultura 
													del cibo pre-America. 
													  
													
													Ma dobbiamo rendersi conto 
													che sarebbe chiedere troppo 
													a questa gente, che ha 
													certamente benedetto le 
													patate, ma ancor di più ha 
													benedetto i pomodori. Quindi 
													non è da fare una colpa se 
													nelle trattorie di 
													Buonconvento aggiungono alla 
													medievale minestra di ceci 
													un po' di purea di pomodoro 
													o quelle di Castiglione d'Orcia 
													lo mettono nella scottiglia 
													e nell'acqua cotta di solo 
													sedano e cipolle: basterà 
													mettersi d'accordo prima coi 
													ristoratori e convincerli 
													che il rosso, in questo 
													caso, è superfluo. 
													 
													
													La zuppa di lenticchie 
													invece è classica, con 
													sedano, aglio cipolla, pane 
													raffermo, olio extravergine 
													e formaggio pecorino 
													abbondante grattugiato, 
													oltre alle lenticchie.
													 
													
													La cipollata sarà non solo 
													medievale, ma sapientemente 
													semplice. 
													  
													
													Si tratta di piatti da 
													focolare, costruiti per 
													insaporire, diversificando 
													con pochi ingredienti da 
													giorno a giorno, la solita 
													zuppa col pane "crogiato" 
													ossia tostato a blocchetti 
													pari a un boccone abbondante 
													sulle braci dello stesso 
													focolare. Acqua, odori, 
													carne salata o salsiccia e 
													pane tostato: le variazioni 
													sono una sinfonia amorosa, 
													andante poco mosso. 
													  
													
													La val d'Orcia nel medioevo 
													certo non mostrava gli 
													attuali panorami vasti e 
													puliti che l'hanno fatta 
													ascrivere da parte 
													dell'Unesco a patrimonio 
													dell'umanità. Selve dovevano 
													essercene per ogni dove, e 
													quindi anche selvaggina. E 
													qui, dove le lunghe distanze 
													dagli abitati e lo scarso 
													controllo del territorio da 
													parte dei poteri signorili 
													lo consentivano, non doveva 
													essere difficile procurarsi 
													qualche preda di frodo. Tra 
													le prede, mettiamoci pure 
													anche qualche pellegrino 
													ricco, anche se non 
													commestibile. Siamo o non 
													siamo nella terra di Ghino 
													di Tacco? 
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											Sunto tratto da: 
											Antichi "mangiari" lungo la Via 
											Francigena - Fabrizio Vanni, con 
											saggio introduttivo di Renato 
											Stopani. 
											Casa Editrice Le 
											Lettere -
											
											www.lelettere.it  |  |